FERRARA. Il Veneto non vuole più bere l’acqua lavorata nello stabilimento di Pontelagoscuro, presa dal Po, depurata, potabilizzata e distribuita dalla rete idrica ferrarese e a Santa Maria. Acqua garantita da centinaia di test ma in cui, saltuariamente, sono state riscontrate tracce di Pfas, composti chimici artificiali capaci di danneggiare il fegato e alterare la funzionalità dell’apparato endocrino. Tracce labili, appena al di sopra della soglia di rilevabilità strumentale; valori che non pregiudicano la potabilità dell’acqua secondo i criteri dell’Istituto superiore di sanità e la normativa generale. Tranquilli, ripetono tecnici e amministratori.
Accade, però, che sull’altra sponda del fiume tranquilli lo siano ben poco. Le sostanze organiche perfluoro-alchiliche rappresentano un nervo scoperto, la Regione ha imposto l’obbligo di Pfas zero negli acquedotti: scelta cautelativa in linea con il principio di precauzione che la giurisprudenza europea assume come strumento di decisione nella gestione del rischio ambientale e per la salute umana. È il caso di riflettere.
Appena tre giorni fa, proprio l’Unione Europea ha annunciato l’accordo sulla nuova direttiva “acque potabili” con un giro di vite generalizzato sugli inquinanti, l’attesa introduzione di un valore soglia per le sostanze perfluoro-alchiliche e nuove regole per gli interferenti endocrini. Danimarca, Lussemburgo, Olanda e Svezia, inoltre, hanno sottoscritto un documento con il quale chiedono che l’Ue prepari nuove azioni per ridurre l’emissione di questi veleni nell’ambiente. Venerdì, intanto, il Veneto ha pubblicato il nuovo report annuale su fiumi e laghi: la presenza di Pfas lungo il suo tratto del Po – il nostro stesso – fa segnare ancora risultati da bollino rosso. Occorre tenere alta l’attenzione.
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