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GIACOMO LEOPARDI E LA DOLCEZZA DELL’OTTIMISMO LEOPARDIANO – di Leonardo Peverati –

GIACOMO LEOPARDI

Racconto…

L’amico Andrea Biondi, qualche giorno fa, ha pubblicato due righe di una poesia di D’Annunzio. Inevitabilmente, fra i commenti che si sono succeduti, è uscito il nome di Giacomo Leopardi, il mio preferito. Ricordo che una professoressa d’italiano, a tal proposito, una volta mi disse: “Allora tu sei parecchio pessimista!”

Lungi da me il fatto che io voglia insegnare qualcosa a qualcuno, trattando di “letteratura”: ho una formazione tecnica, figuriamoci! Da sempre ho visto girare numeri nei vari uffici dove sono stato.

Tuttavia, qualche passione umanistica l’ho un attimo curata e in effetti, quando si legge Leopardi, il pessimismo aleggia nell’aria e, del pessimismo leopardiano, tutti abbiamo dovuto prenderne atto quando studiavamo.

Ricordate:

O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?”

O ancora:

“Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato”.

Si d’accordo, però come non vedere positività leggendo:

“D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core”.

O perchè non carpire ottimismo in:

“Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato……”.

C’è o non c’è quindi anche ottimismo in Leopardi? Esiste il Leopardi ammiratore, quasi adulatore delle cose del mondo? Sì, per me si! Esiste quindi l’ “ottimismo leopardiano”.

E mi ricordo perfettamente da quando ho cominciato a leggere anche in tal senso le sue poesie: da quando in quarta superiore un compagno di scuola, certo Arzenton da Adria, veneto scaltro e birichino, beccò un bel “otto e mezzo” in un compito in classe d’Italiano, sostenendo questo tanto.

La professoressa che glielo appioppò non era quella dell’inizio di questo modesto racconto. Era quella che io, ancora dopo tanto tempo da allora, considero la migliore professoressa che io non abbia mai avuto. Insegnanti così si augurano a tutti: lei le poesie non le leggeva, le interpretava!

Ma soprattutto aveva un’imparzialità di giudizio e un’apertura mentale, non facilmente riscontrabile all’epoca: aveva una cinquantina d’anni ed eravamo nel 1974.

Un giorno, leggendo “Pianto Antico” di Carducci, un attimo dopo l’inizio ….”L’albero a cui tendevi la pargoletta….”, si fermò. Una parte della classe non solo non era attenta, ma di quel lamento di padre non gliene importava nulla.

Ricominciò: “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno dai bei vermigli fiori….”. Niente, la confusione quel giorno in aula regnava sovrana.

Guardò noi, un po’ più attenti degli altri, fulminò e ammutolì con lo sguardo chi si dimenava sulle sedie e disse: “Ricordate, sta scritto, ….NON DATE LE PERLE AI PORCI” … e uscì prima del suono della campanella.

Grazie, professoressa Crepaldi, per la più grande lezione della mia vita scolastica!!

Scusatemi! Sarà perché son trascorsi quarant’anni da allora, una vita, “un’immensità”, ma a questo pensavo stasera, e “Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare.”

Leonardo Peverati – 18.3.15

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